L’ondata di sangue e di morte che ci colpisce ogni giorno – tra guerre nel mondo e tristi episodi di cronaca di casa nostra – non impedisce che anche quest’anno le vetrine delle pasticcerie e di alcuni negozi preparino l’arrivo trionfale di Halloween con i suoi immancabili e stucchevoli riti: dolcetti a forma di teschi, tombe e fantasmi; zucche; costumi e maschere da streghe, zombie, spettri, scheletri; decorazioni e cianfrusaglie varie in tema.
Nell’835 Papa Gregorio IV scelse il 1° novembre come data per la memoria liturgica dei santi apostoli e di tutti i santi, chiamandola “Ognissanti”, che in inglese divenne “All Saints” oppure “All allows day”. Nel 1475 Sisto IV rese Ognissanti solennità obbligatoria per tutta la cristianità. Oggi, per i più, la ricorrenza è svuotata di significato e ridotta ad una festa di importazione americana all’insegna di consumismo, banalità e cattivo gusto. Ma qual è il fascino oscuro di Halloween? Ne parliamo con Mario Pollo, antropologo dell’educazione, già docente di sociologia e pedagogia all’Università Lumsa di Roma.
Professore, perché questo gusto del macabro, dell’orrido “fittizio”?
Per prima cosa occorre rendere giustizia ad Halloween, festa che affonda le proprie radici nel mito e nel rito con il quale il 31 ottobre gli antichi celti celebravano Samhain, il loro Capodanno. Quella data indicava il confine simbolico tra la fine della stagione della luce e del caldo e l’inizio di quella delle tenebre e del freddo. In quel confine il mito collocava l’esistenza di una contiguità temporanea tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Morti che durante gli altri giorni dell’anno vivevano in una landa di eterna giovinezza e felicità chiamata Tir nan Oge, ma che quel giorno potevano tornare nel mondo dei vivi.
Il mito celtico di Samhain è uno degli innumerevoli miti che l’uomo, unico essere vivente consapevole della propria mortalità, ha utilizzato per superare l’angoscia che questa conoscenza gli procurava, nonostante percepisse la morte come necessaria alla conservazione e allo sviluppo della propria specie. Angoscia che nasceva dal pensare che la morte distruggesse la sua unicità e quella delle persone con le quali aveva legami affettivi. Per questo si rifiutava di sottomettere la propria individualità alla pur ineludibile necessità di difendere la specie. Il mito di Samhain, e i riti ad esso ispirati, rassicuravano le persone sulla loro sopravvivenza dopo la morte.
Non è perciò casuale che questo antico mito abbia favorito l’innesto, nella stessa data, della festa cristiana di Ognissanti e di quella, il giorno successivo, dei Defunti.
Tra l’altro, alcuni riti popolari celebrati a Ognissanti, come imbandire la sera della vigilia la tavola prima di andare a dormire con cibi e bevande destinati ai cari defunti che nella notte avrebbero visitato la casa, o quello in cui nella notte i cari defunti avrebbero lasciato doni per i bambini, sono, di fatto, la riproposizione di riti della tradizione, antecedenti la loro cristianizzazione.
L’odierna celebrazione di Halloween, a tutti gli effetti una fiera del consumismo, non ha invece nulla a che vedere con questa antica tradizione culturale. Anzi, ne ha rimosso i riti oppure li ha ridotti a una sorta di caricatura.
I nostri bambini hanno davvero bisogno di travestirsi da scheletri o fantasmi per “esorcizzare”, come sostengono alcuni, la paura della morte? Qual è il rischio di banalizzare la morte, che si scontra con il nostro istinto di sopravvivenza ma al tempo stesso nutre la vita di senso?
Se il mito proponeva alle persone il superamento dell’angoscia della morte, la sua caricatura rappresentata dall’odierna festa di Halloween non è che un ulteriore modo di rimuovere dalla coscienza delle persone la consapevolezza della loro mortalità.
Rimozione che nell’attuale cultura sociale è paradossalmente prodotta dall’iper-rappresentazione mediatica della morte. È stato calcolato che ogni anno assistiamo a migliaia di cronache e immagini di morte. Tutto questo mentre nel mondo reale la morte è nascosta: molti genitori non fanno partecipare i figli piccoli alle esequie dei nonni e, più in generale, l’evento della morte di persone conosciute è quasi sempre soggetto a quello che Di Nola chiamava “evitazione” attraverso l’uso di metafore ed eufemismi per nominarla tentando di obliare il legame solidale tra vita e morte. Legame espresso da Freud con il famosissimo detto “Si vis vitam, para mortem”, o dalla definizione di Heidegger secondo il quale l’uomo può raggiungere la piena maturità solo quando passa dal “si muore all’io muoio”.
Essere consapevoli della propria mortalità è necessario alla piena maturazione dell’umano e, quindi, allo sviluppo di una fede matura.
Quando frequentavo le scuole medie in un istituto salesiano, partecipavo periodicamente agli “esercizi di buona morte”. Non credo che molti genitori odierni consentirebbero la partecipazione dei loro figli a questa pratica.
Non sarebbe preferibile, invece, parlare loro della morte in modo sano e costruttivo, recuperando il legame con chi ci ha preceduto e che un giorno ritroveremo in Paradiso?
Sono assolutamente d’accordo. Dovremmo aiutare le nuove generazioni a scoprire che quelle che le hanno precedute, in particolare quelle con le quali hanno condiviso una parte del loro cammino esistenziale, sono presenti nella loro vita attraverso il patrimonio collettivo di sapere, di savoir faire, di valori, di fede e di modelli di vita, presenti nella cultura in cui sono nati e stanno crescendo. Oltre a questo, è necessario far scoprire che le persone morte a noi care ci sono spiritualmente accanto e che nel giorno, sperabilmente il più lontano possibile, in cui varcheremo il confine della morte saranno lì ad accoglierci con amore.
Carlo Acutis e Chiara Luce Badano – solo per citarne alcuni – hanno speso la propria vita per la santità. Anziché propinare ai giovanissimi vuoti simulacri di tenebre, non sarebbe preferibile educarli alla bellezza, incoraggiarli a cercarla in questi coetanei così luminosi?
Quest’ultima domanda, eliminando il punto interrogativo, mi sembra la migliore conclusione della nostra chiacchierata, alla quale aggiungo solo una citazione dal pensiero di un grande pastoralista giovanile, il mio compianto amico don Riccardo Tonelli: “Dire sì alla vita per dire sì a Gesù, il Signore della vita”.
Giovanna Pasqualin Traversa