Mons. Bommarito: “Vescovo coraggioso e prudente… puzzava di pecora”

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mons. Luigi Bommarito con don Gino Faragone, in giorno del matrimonio della sorella

Unitamente agli altri ricordi (vedi qui) che abbiamo raccolto in occasione del V anniversario della morte di mons. Luigi Bommarito, che cade il 19 settembre, riceviamo il contributo di don Gino Faragone, parroco della della parrocchia della B.M.V. di Loreto a Sciacca, che pubblichiamo di seguito.

Non un uomo perfetto, ma un uomo vero, capace di relazioni, un vescovo come pochi, coraggioso e prudente nel contempo: questo per me è stato don Gino Bommarito (come si faceva chiamare). Un uomo che non nascondeva i suoi limiti, che sapeva guardare con un pizzico di ironia le sue difficoltà e amava consultarsi anche con noi, allora clero giovane. Un uomo che aveva ben compreso che il suo ruolo di vescovo doveva essere svolto come un servizio, senza cercare onori e presenze di prestigio. Solo un servizio, per annunciare in ogni occasione la Parola. Era fortemente convinto che la vicinanza era il modo più usuale di rendersi presente da parte di Dio, che esprimeva così la sua compassione e tenerezza nei confronti del popolo. Don Gino non aspettava di essere raggiunto dai suoi preti in episcopio, li andava a trovare a casa, con un pretesto qualsiasi, condividendo un momento di fraternità e di convivialità. Sapeva accorciare le distanze, mettendo tutti a proprio agio. Quando veniva a casa mia, si doveva solo aggiungere un posto a tavola. Capivamo subito che aveva bisogno anche di compagnia, di un clima sereno di famiglia, ma anche di un po’ di riposo. Ci rendevamo conto che stava scalando una montagna tra mille difficoltà. In quei momenti gli occorreva non il peso dell’autorità, ma l’autorevolezza nel saper trasmettere quanto fosse più utile per il bene della comunità ecclesiale. Allora come oggi, non si trattava di inventarsi strategie efficaci, ma di rendere più vivibile la sinodalità, riscoprire la comunione e la corresponsabilità nella gestione della comunità ecclesiale. Mi diceva: “Non si consultano le persone dopo avere già preso le decisioni o comunque nel tentativo di concludere secondo quanto si ritiene già stabilito”. Don Gino non decideva da solo e neppure si tirava fuori per non sporcarsi le mani. La sinodalità non era per lui un convegno straordinario, ma uno stile di vita, con l’impegno di un reciproco ascolto. La Chiesa non ha bisogno di supereroi, ma di uomini che sappiano fare i conti con i propri limiti e le proprie fragilità. Ad ogni vescovo viene consegnata una pagina in bianco su cui scrivere una nuova avventura di Dio che si incontra con gli uomini. E la prima vicinanza non può non riguardare l’incontro con le persone più povere e deboli.
Don Gino puzzava di pecora, perché amava stare con il suo gregge, prendersi cura di ogni pecora. Una mattina, venendo in seminario per far colazione con i seminaristi, mi confidò di avere riflettuto su un testo dell’Esodo, che aveva fatto suo con queste parole: “Dall’alto del palazzo osservo ogni giorno la miseria del mio popolo agrigentino, reso sempre più povero e lontano da un progetto di fraternità; esco fuori per ascoltare più da vicino le sue sofferenze. Voglio davvero impegnarmi, perché si respiri un clima di maggiore libertà e questa terra martoriata possa tornare ad essere bella e accogliente per tutti” (cfr 3,7s).
Grazie don Gino, per il clima amicale che ci hai fatto respirare, per l’esperienza così fraterna che ci hai regalato!

 

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